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Ne avevamo già parlato in passato, ma – come spesso accade – repetita juvant.

È il caso di una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (la n. 39104 del 29 agosto). Un operaio cade da un ponteggio provvisorio mentre sistema un tubo dell’acqua corrente che alimenta il bagno mobile delle maestranze in cantiere e si procura traumi cranici con prognosi riservata. Il datore di lavoro si difende spiegando che intanto il tubo era già stato rialzato da terra, quindi non si ha la prova che il lavoratore sia caduto per motivi di lavoro (potrebbe aver accusato un malore) e in secondo luogo che l’intervento dell’operaio non superava i due metri.

La Cassazione respinge la difesa. Innanzitutto, spiega, non c’è traccia di requisiti anti-infortunistici né si è evitato che il lavoratore salisse su un ripiano appoggiato in modo rudimentale. In secondo luogo i lavori in quota si intendono calcolati rispetto al terreno e non al piano di calpestio del lavoratore. Nel caso specifico la sopraelevazione era di 90 cm, ma se la si somma all’altezza dell’operaio – che per eseguire il suo lavoro doveva utilizzare un bastone operando a un’altezza superiore alla sua statura – la misura dei due metri stabilita per definire il cosiddetto “lavoro in quota” viene superata.

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